lunedì 7 dicembre 2015

PER TUTTO L'ORO DEL MONDO di Massimo Carlotto - Edizioni e/o - Recensione di Massimiliano Amato


PER TUTTO L’ORO DEL MONDO

E’ tutto maledettamente complicato nella vita dell’Alligatore, al secolo Marco Buratti, tranne il blues, “musica del diavolo” e balsamo per l’anima. La nuova indagine è tutta un “vidiri e svidiri” direbbe il maestro Camilleri. Nel senso che (quasi) niente è come appare: il crimine ha contorni ambigui, labili e sfuggenti, ma è una metastasi che s’è mangiata la polpa del ricco e corrottissimo Nord Est. E il nuovo amore è solo un annuncio d’infelicità programmata: Cora, la donna di jazz che per sfuggire all’accidiosa, tossica monotonia di un matrimonio fallito si esibisce al Pico’s Pub in abito corto verde e scarpe di vernice col tacco, è una vertigine dei sensi destinata a lasciare sul cuore una cicatrice spessa così. Già, il cuore. Bussola unica e insostituibile per Buratti e i suoi due soci: il grandioso, immarcescibile, incommensurabile Beniamino Rossini, e Max la Memoria, irrimediabilmente perso dietro i suoi patemi d’adipe e d’amore, sempre in grado però di piazzare il guizzo risolutivo, grazie al monumentale archivio e all’arma letale delle “connessioni logiche”.  Il caso stavolta parte da una rapina in villa, da due morti, da un cliente di soli 12 anni, Sergio, e da un anticipo di 20 cent. Ma a muovere ogni cosa è l’inesausta, inappagabile sete di giustizia che pompa sangue al “cuore fuorilegge” della più dannata squadra di investigatori privati della scena noir contemporanea. L’Alligatore, Max e il vecchio Rossini si muovono su un terreno limaccioso, e il piano inclinato di questa storia di oro rubato e vendette private fa rotolare a valle tutta la melma di cui è impastata l’odierna antropologia di un pezzo d’Italia che per prima ha scoperto la globalizzazione economica senza limiti né regole, e per prima l’ha trasformata in globalizzazione criminale negli anni della grande crisi (ma i due processi, è questa l’amara consapevolezza che trapela hanno proceduto parallelamente). Un territorio che sulle proprie fobie e su pregiudizi inveterati ha costruito un nuovo, precarissimo modo di vivere, tra tribuni law and order marci fino al midollo, folle imbastardite, pulsioni che un tempo avremmo definito inconfessabili e oggi sono sfrontatamente sbandierate, esibite. Al punto di diventare programma politico. Su tutto domina come sempre il dio denaro, l’arricchimento facile che fa strage di innocenti. Non fosse per i nostri tre eroi chandleriani, maledetti, non ci sarebbero puri di cuore, nel mondo – assai realistico – che Carlotto descrive. Preoccupandosi, come al solito, di fare a pezzi story telling rassicuranti e talvolta lacrimose per raccontarci, con la solita dovizia di particolari storici e sociologici diluiti nell’inimitabile impasto narrativo, il grande fenomeno carsico degli anni correnti. La velocissima discesa verso gl’inferi del crimine di interi pezzi di società “normale”. Senza farci la morale sulla banalità del male, anzi senza farci alcuna morale, Carlotto ci porta per mano lungo questo percorso di dannazione. Ed è un precipitare senza rete, un viaggio nel malessere profondo del Paese, o della parte descritta come la più avanzata, di sicuro quella economicamente più progredita, di esso. Oltre la gangster story, oltre i canoni classici del giallo e del noir: la destrutturazione dei generi proietta Carlotto (anche se lui non lo ammetterà mai) nella letteratura d’impegno tout court. Quella che attraverso la finzione ci spiega la realtà in repentino mutamento, tra ciclopiche bevute di Calvados, overdose di blues, amour fou, nuove paure e vecchi incubi. Come quello che si materializza nell’epilogo a sorpresa, che non ha un volto, ma un nome e cognome che ai “carlottiani” doc fanno tremare le vene dei polsi. Giorgio Pellegrini. Ovvero, il Male. Ma questa è già un’altra storia, un’altra avventura che, archiviato l’ultimo caso, ci scaraventa nella febbrile dimensione dell’attesa.

Massimiliano Amato

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